Arriva dicembre e, come ogni anno, la FIFA fa il punto della stagione premiando i 22 calciatori, 11 donne e 11 uomini, che più si sono distinti. Nella lista, un solo nome italiano: Barbara Bonansea. A dare la notizia, tantissime orgogliose testate e pagine social dedicate al tema. La centrocampista della Juventus non è solo l’unica calciatrice italiana della top 11 di FIFA dedicata alle donne, Bonansea è l’unica italiana e basta. Nessun connazionale uomo le fa compagnia in quella classifica.

Nel cuore di molti tifosi – che ve lo dico a fare – il naturale orgoglio che questa vittoria dovrebbe suscitare lascia spazio a uno dei cancri più sottovalutati e meschini della nostra società, alla rovina di questo sport, alla concretizzazione della più pericolosa ignoranza: il sessismo. La vittoria di Bonansea diventa la sconfitta di chi sente minacciato un mondo che, secondo regole indelebili anche se mai scritte, non appartiene alle donne. E così piovono commenti che vanno dal fuori luogo all’offensivo; che sottolineano – tra l’altro senza dimostrare alcuna originalità – che il posto di una donna dovrebbe essere la cucina e non un campo da calcio, figuriamoci poi un ranking FIFA; che esprimono un non richiesto parere sull’aspetto fisico di Bonansea che piace, non piace, è figa, non è figa, gioca truccata, gioca senza trucco; che chiedono con disprezzo perché le femmine giochino a pallone; che pretendono a gran voce che il calcio femminile venga abolito, come se bastasse quell’aggettivo specificato con disprezzo a renderlo uno sport diverso, minore.

Ed è così che Barbara Bonansea, una delle undici migliori calciatrici del mondo, finisce col dover spiegare a un mondo che non la ascolterà che le persone sono libere di fare cosa vogliono, che i suoi genitori le hanno insegnato ad essere sé stessa, che non esistono cose da femmine e cose da maschi. E non dirò che nel 2020 questo non dovrebbe succedere o che in un Paese come il nostro questi discorsi non dovrebbero essere necessari, perché non è così. Perché Bonansea che cerca di far valere le sue ragioni per combattere quegli stereotipi di genere da cui noi donne ci sentiamo quotidianamente soffocare riflette un’Italia che millanta un’apertura mentale che palesemente non ha e che necessita terribilmente di spiegazioni elementari come quelle che la centrocampista si vede costretta a dare. E come lei, tante altre donne. Donne che giocano a pallone, che lavorano, che partecipano ed eccellono in mondi che non sono stati disegnati per comprenderle. Donne che non si accontentano più di giustificare il sessismo con l’ignoranza, che non accettano di non dare peso alle opinioni scomode che continueranno a esistere anche se ignorate, che non smetteranno di spiegare e di spiegarsi fino a quando non sarà più necessario, fino a quando anche l’ultimo commento non sarà più pubblicato e maschile e femminile avranno lo stesso valore.

Matilde Castagnone