Piazza Gobetti a Milano

In questi giorni mi è tornato alla mente questo bel pezzo del libro di Steiner sul futuro (se futuro ci sarà) della vecchia Europa. Che non ha gli strumenti per capire gli UsaE mi è tornato alla mente dopo che i miei (lontani) parenti americani mi chiedevano come avessi accolto il voto a Trump. Al mio tono disgustato, hanno replicato dicendo che avrebbero chiesto anche la cittadinanza italiana. E d’altronde seguendo il filo di questa analisi di Steiner sono gli stessi parenti che più volte mi hanno chiesto informazioni sulla famiglia Riscassi nel piacentino (dove abbiamo antiche radici).

Buona lettura.

Ad maiora 

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Le strade, le piazze dove camminano gli uomini, le donne, i bambini europei hanno preso il nome da statisti, generali, poeti, artisti, compositori, scienziati e filosofi. Nella mia infanzia parigina ho imboccato, in un’infinità di occasioni, Rue Lafontaine, Place Victor Hugo, il Pont Henri IV, Rue Théophile Gauthier. Le strade che circondano la Sorbonne hanno preso il nome dai grandi maestri della scolastica medievale. Celebrano Descartes e Auguste Comte. Se Racine ha la sua Rue, ce l’hanno anche Corneille, Molière e Boileau. Lo stesso accade nei paesi di lingua tedesca: basti pensare alle miriade di Goetheplätze e Schillerstrassen, o alle piazze che prendono il nome di Beethoven o Mozart. Lo scolaro europeo, e tutti quelli che vivono nelle grandi città, abitano quelle che sono – alla lettera – delle camere di risonanza di grandi imprese storiche e intellettuali, artistiche e scientifiche. Molto spesso il cartello stradale non porta solo un nome, illustre o meno noto, ma anche le date principali e qualche altra indicazione. Città come Parigi, Milano, Firenze, Francoforte, Weimar, Vienna, Praga e San Pietroburgo sono cronache viventi. Leggere i nomi delle strade significa sfogliare il nostro passato prossimo. Questa pietas non si è estinta. Place Saint-Germain è diventata Place Sartre-Beauvoir. Di recente Francoforte ha battezzato una Adornoplatz. A Londra uno sperpero di placche blu segnala non solo le case in cui si pensa che abbiano vissuto scrittori, artisti o scienziati del Medioevo, del Rinascimento o dell’Età vittoriana, ma anche edifici associati a Bloomsbury e ai moderni. 

È una differenza enorme e va sottolineata. Negli Stati Uniti i memoranda di questo genere sono rari. Vie e strade si chiamano all’infinito “Pino”, “Acero”, “Quercia” o “Salice”. I viali hanno diritto al tramonto: “Sunset Boulevard”. L’arteria principale di Boston è Beacon Street, la via del faro. E persino queste sono concessioni all’umano. Le Streets e le Avenues in America sono semplicemente numerate; nei casi migliori come a Washington hanno anche un orientamento visto che il numero è seguito da un North o un West. Le automobili non hanno tempo di meditare su una Rue Nerval o su un Largo Copernico.

La sovranità del ricordo, questa auto-definizione dell’Europa come lieu de la mémoire, come luogo della memoria, ha però un suo lato oscuro. Le targhe affisse su tante case europee non parlano solo dell’eminenza artistica, letteraria, filosofica o politica. Commemorano anche secoli di massacri e sofferenze, di odio e di sacrifici umani. In una città francese la lapide che celebra Lamartine, il più idilliaco dei poeti, fronteggia un’iscrizione, dall’altro lato della strada, che ricorda le torture e il sacrificio di alcuni membri della resistenza nel 1944. L’Europa è il luogo in cui io giardino di Goethe quasi confina con Buchenwald, in cui la casa di Corneille sulla piazza del mercato dove Giovanna d’Arco venne orribilmente messa a morte. Troviamo ovunque memoriali dell’omicidio individuale o collettivo. Da questo censimento marmoreo, sembra che il numero dei morti superi quello dei vivi. (…)

Certo, il problema è ancora più profondo. In Europa anche i bambini si piegano sotto il peso del passato, così come si piegano sotto il fardello di zaini scolastici troppo pesanti. Quante volte, passeggiando in Rue Descartes o attraversando il Ponte Vecchio, o passando davanti alla casa di Rembrandt ad Amsterdam, sono stato travolto da una sensazione addirittura fisica, dalla domanda: “Ma a che serve? Che cosa può aggiungere chiunque di noi alle immensità del passato europeo?”. Quando Paul Celan si è gettato nella Senna per suicidarsi, ha scelto il punto esatto cantato dalla grande ballata di Apollinaire, e questo punto si trova sotto la finestra della stanza in cui Marina Cvetaeva ha passato l’ultima notte prima di tornare alla desolazione di alla morte in Unione Sovietica. Un europeo colto si trova intrappolato nella ragnatela di un in memoria luminoso e insieme soffocante.

L’America del Nord rifiuta proprio questa rete. La sua ideologia è quella dell’alba e del futuro. Quando Henry Ford ha dichiarato: “La storia è una sciocchezza”, lanciava la parola d’ordine dell’amnesia creativa, inneggiando a quel potere di dimenticare che è necessario all’inseguimento pragmatico dell’utopia. Gli edifici più moderni hanno un fattore di obsolescenza che si aggira intorno ai quarant’anni. La guerra del Vietnam ha quasi gettato sugli Stati Uniti un’ombra da Vecchio Mondo e l’11 settembre ha instillato un tremore, un memento mori, nella psiche americana. Ma si tratta di circostanze eccezionali e quasi certamente transitorie. Le memorie più incisive della sensibilità e della lingua americane sono quella della promessa: è il contratto degli sconfinamenti orizzontali che hanno innescato la marcia verso il West e, nel prossimo futuro, ispireranno il viaggio dell’intero pianeta verso un nuovo Eden. (…)

Gli uomini e le donne del Nuovo Mondo sono più fedeli al detto di Gesù: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”.

George Steiner, Una certa idea di Europa, Garzanti, 2006.