Ho letto Essere senza destino proprio in questi giorni, nei lunghi trasferimenti al seguito dell’Under 21. E ho subito capito perché a Imre Kertész sia stato dato, nel 2002, il Premio Nobel per la letteratura. Purtroppo lo,scrittore ungherese è morto ieri, dopo aver a lungo combattuto contro il Parkinson. Aveva 86 anni.
Essere senza destino è davvero un capolavoro. Davvero un modo inedito di raccontare la Shoah. Kertész narra la sua esperienza nei campi di sterminio di Auschwitz e Buchenwald mantenendo lo sguardo dell’adolescente che ha varcato quei cancelli sull’inferno. Non ci aggiunge le sovrastrutture del tempo e dell’esperienza. Rimane per tutto il libro più stupito che rabbioso.
Per questo Essere senza destino è decisamente uno dei più stupefacenti racconti dei sopravvissuti alla Shoah che abbia mai letto. E per questo credo sia stato accolto a fatica dal regime comunista ungherese. Kertész infatti non trovo editori ungheresi per il suo racconto e la fama (Nobel compreso) è arrivata solo con la caduta del Muro.
Il libro di Kertész non ha infatti nulla di epico. Persino il racconto del suo ritorno a Budapest (dove è deceduto ieri) è minimalista. Così descrive l’incontro coi suoi ex vicini di casa (ex perché la sua casa era stata ormai occupata da qualche ariano, ora magari diventato comunista). Lui sopravvissuto ai campi, loro sopravvissuti per aver girato la testa dall’altra parte quando gli ebrei venivano deportati: «”E in generale,” ho aggiunto, “io non mi sono accorto degli orrori”, e allora li ho visti tutti piuttosto sbalorditi. Cosa significava che “non mi ero accorto”? Ma a questo punto ho domandato cosa avessero fatto loro in questi “tempi difficili”. “Be’…abbiamo vissuto”, ha risposto il primo con aria pensierosa. “Abbiamo cercato di sopravvivere” ha aggiunto l’altro».
Se non avete ancora letto il libro di Kertész, fatelo in questi giorni. Essere senza destino (Feltrinelli) è davvero un testo imperdibile.
Ad maiora
Addio a Emre Kertész, autore di Essere senza destino
