La dottoressa Davis mi mise su un tapis roulant, prima a piedi nudi e poi con tre tipi differenti di scarpe da corsa. Mi fece camminare, trotterellare e poi correre come un matto su una piattaforma di forza, per misurare i traumi da impatto dei miei passi. Poi mi sedetti a guardare con orrore il video dei miei esercizi che lei trasmetteva su un monitor.

Se chiudo gli occhi e cerco di immaginari durante una corsa, mi vedo come un leggero e agile cacciatore navajo. Il tizio che vedevo sullo schermo, invece, sembrava un Frankenstein che provava a cimentarsi con dei passi di tango. Mi muovevo in modo così scoordinato che la testa ogni tanto usciva dall’inquadratura. Le braccia si aprivano e chiudevano come quelle di un naufrago su un’isola deserta che cerca di attirare l’attenzione di una nave, mentre i piedi (numero 49) sbattevano al suolo con un tumore che faceva sospettare che il video avesse un sottofondo di bonghi.

Come se non bastasse, la dottoressa Davis fece ripartire il filmato, stavolta al rallentatore, in modo che potessimo rilassarci e apprezzare con calma il modo in cui il piede destro puntava verso l’esterno e il ginocchio sinistro verso l’interno; i muscoli della schiena invece si contraevano così malamente che sembravo un epilettico cui si dovesse mettere al più presto una penna tra i denti mentre veniva chiamata d’urgenza un’ambulanza. Era difficile capire come diavolo riuscissi anche solo a muovermi, visti tutti quei sussulti, sobbalzi, sbilanciamenti e ciondolamenti in perfetto stile “pesce all’amo”.

Christofer McDougall, Born to Run, Mondadori

(il pesce all’amo, milanese, è pure quello fotografato dopo una 5.30… ad maiora)