«Ora il sogno di vendicarsi da sole per la perdita dei figli, dei mariti e dei fratelli è la massima ambizione di migliaia di madri, mogli e sorelle. E non perché lo esigano l’islam o gli adaty (le norme di vita tradizionali), ma perché non hanno altra scelta. Nella zona delle “operazioni antiterrorismo” la gente è condannata a farsi giustizia da sé, perché malgrado la presenza di tanti soldati armati non esiste nessuna tutela dei più elementari diritti umani». Così scriveva la compianta Anna Politkovskaja dopo l’assalto al teatro Dubrovka.

La foto che viene fatta circolare oggi dal quotidiano russo Kommersant su una delle due kamikaze che si sono fatte saltare nella metropolitana di Mosca mette i brividi, anche ripensando alle parole di Anna/Cassandra.

Jennet Abdurakhmanova, aveva 17 anni ma era già vedova del leader della guerriglia daghestana Umalat Magomedov, ucciso in un operazione di polizia a capodanno. La foto dei due, entrambi armati, racconta l’insuccesso della strategia putiniana (e del suo omologo tecnocrate ora al Cremlino). Non è stanandoli nel cesso o cercandoli nelle fogne (per usare il linguaggio del premier russo, con due frasi a distanza di 10 anni che segnano una stagione politica terrificante), e nemmeno usando metodi più crudeli (per citare quello che Napolitano aveva chiamato l’uomo nuovo, Medvedev) che si risolverà la crisi caucasica. Anche l’altra kamikaze, cecena, ventenne, era una “vedova di Allah”: il marito era il guerrigliero ceceno Said-Emin Khazriev. Cito ancora la Politkovskaja e una delle sue ultime interviste nelle quali raccontava il suo incontro con le kamikaze nel teatro Dubrovka: «Si diceva che le vedove nere non volessero morire. Niente affatto. Avevo parlato con loro. In Cecenia c’era stata quasi una gara tra le donne per poter andare al Dubrovka. Volevano vendicarsi. È una verità crudele. Si è detto che erano state costrette, drogate. Nulla di tutto questo. Avevo parlato con loro, avevo parlato con quelli che avrebbero voluto far parte di quel commando e non ci erano riusciti. Sognavano il Dubrovka, ciascuno per un motivo personale. In Cecenia, la sorella per un fratello spesso è più importante della moglie. Al Dubrovka c’erano molte sorelle i cui fratelli erano stati rapiti. Pensavano di vendicarsi così».

Una vendetta atroce e deplorevole come quella che ha colpito 40 (a tanto sono salite le vittime del duplice attentato moscovita) innocenti. Frutto di una cecenizzazione della Russia che la giornalista assassinata da sconosciuti nel cinquantaquattresimo compleanno di Putin, aveva invano denunciato come rischio. Poco prima di essere assassinata aveva scritto per la Novaja, un articolo di Islam Suschanov, che lei definiva “terrorista” tra virgolette: nato nel 1984, studente modello di scultura, accusato nel 2002 di “atti di terrorismo” che veniva convinto a confessare. Condannato a 14 anni di carcere duro per il classici “reati ceceni”: banditismo, terrorismo, formazioni armate illegali. Rinchiuso in isolamento, senza libri né la possibilità di pregare, compie atti di autolesionismo per fare riesaminare la sentenza, ma intanto subisce punizioni su punizioni, in quanto “incline all’evasione”. Scrive Anna: «Cosa vogliamo davvero noi da Suschanov e da tutti questi rastrellati? Che crepino nelle carceri? Perché non possono pregare? Vogliamo obbligarli a pregare di nascosto e che finiscano per diventare degli integralisti? O che dimentichino le preghiere che hanno imparato nell’infanzia e si mettano a recitarne di nuove? Se Suschanov uscirà, sarà nel 2017, a trentaquattro anni. Gli altri rastrellati della sua generazione lasceranno le carceri più o meno nello stesso periodo, a un’età compresa fra i trentacinque e in trentasette anni. Si presenteranno alla società da non sposati. Senza figli, un’istruzione, una professione. Ma con una grande rabbia dentro: una vita rovinata, nessuna giustizia. Temo l’odio di quei ragazzi. E temo ancor di più chi con la violenza costringe i propri simili ad accumularne».

Anna ha pagato con la vita queste sue riflessioni sulla repressione militare in Caucaso, una repressione inutile visto che a dieci anni dalla discesa in campo di Putin, gli attentati non si sono fermati, la rabbia continua purtroppo ad alimentarsi. Come per l’Irlanda del Nord occorrerebbe un percorso politico, per affrontare una crisi che altrimenti rimarrà tra i due forni, del nazionalismo russo e dell’islamismo più radicale. Capace di mandare a morire e a uccidere, ragazze di soli 17 anni.

Ad maiora